Vedere Antonio Mancini in TV mi fa ancora un certo effetto. Il mondo di sotto, quello dei morti; il mondo di sopra, quello dei vivi; e poi il mondo di mezzo, quello “in cui tutti si incontrano”, quel grigio mondo dei criminali che decidono chi deve passare dal mondo di sopra a quello di sotto. Tutto solo per i soldi e per il potere.
La mia intervista con il pentito della Banda della Magliana nel 2007
Come funzionava, e perché, me lo aveva raccontato proprio lui, Antonio Mancini, l'”accattone” della Banda della Magliana. Lo aveva raccontato anche alle forze dell’ordine, da pentito. Ma tanti ancora sono i segreti che questa banda criminale porta con sé, troppe cose ancora da capire, persone troppo importanti e di potere coinvolte, personaggi della finanza, della politica, della chiesa, dei servizi segreti che hanno collaborato con Mancini e gli altri suoi compagni assassini facendo di Roma, la Capitale, la caput mundi, una città al centro non solo della nazione, del potere e della bellezza ma anche della criminalità organizzata.
E oggi?
Ancora oggi, dopo decenni, non tutto è risolto. Non tutto è chiaro e forse non lo sarà mai. Dagli anni Settanta fino ad almeno gli anni Novanta e forse fino oggi, tutti i più grandi drammi nel nostro Paese hanno avuto e hanno a che fare con i potenti collegati a questa enorme rete mafiosa e criminale. Tutti uniti nel nome dei soldi. Non importava chi toccava uccidere, chi bisognava sequestrare, rapinare, dove mettere una bomba. Così strage di Bologna, sequestro Moro, omicidio Pecorelli, caso Emanuela Orlandi e poi tanto altro: in tutto c’era sempre lo zampino, in qualche modo, della Banda della Magliana, amica anche di cosa nostra e di estremisti di destra, di sinistra e di dove capitava.
Intervistai Mancini nel 2007, in una località fino all’ultimo momento sconosciuta. Appena ricevuto l’ok del suo avvocato con il luogo d’incontro, partimmo con il fotografo per raggiungerlo, in una città del centro Italia.
Un pentito tra i dolenti
Lui lavorava nei servizi sociali, anzi con ‘i dolenti’, come li chiamava lui durante l’intervista con me. Mi raccontò tantissime cose, ho ancora la registrazione. La mia intervista uscì sul settimanale Gente ma non ci poteva essere abbastanza spazio per ore e ore di chiacchierata, ore e ore di segreti, già rivelati alle forze dell’ordine. “Che te credi, che nun ce penso?”, mi diceva. Gli faceva male pensare al passato, si vedeva. Si mostrava davvero pentito di aver fatto parte di quello schifo di mondo. Ma “ogni volta che aiuto i dolenti per me è come ridare un po’ di quella vita che ho tolto in passato. È inutile dire che non rifarei più quello che ho fatto, ed è inutile sperare di rimediare al male che ho causato. Posso solamente vivere la mia vita, ricominciando ogni giorno con il sangue agli occhi”.
Quell’intervista era partita dalla lettura di un libro: la sua biografia, intitolata proprio ‘Con il sangue agli occhi’, scritta con la mia illustre collega giornalista, Federica Sciarelli, in cui il pentito Mancini si raccontava. Su quel libro ho ancora la dedica di ‘Nino’, come lo chiamavano i suoi amici: ‘A Donatella, per una bella intervista di una brava giornalista’.
Sempre con la Sciarelli ha scritto anche il romanzo ‘Qualcuno è vivo’.
Era davvero strano avere davanti quell’uomo come tanti altri e che invece ti racconta di avere ammazzato, rubato…Un uomo poi pentito, diverso. O no?
Guardandolo pensavo: ma è lo stesso uomo? Si può essere gli stessi prima e dopo? Come si può ricominciare?
Eppure lui mi ha dimostrato che cambiare si può. Questione di volontà. E di scelta. Lui ha scelto di farlo. Almeno, questo era il Mancini che ho incontrato in quell’intervista del 2007.
Mancini collaboratore di giustizia..pentito anche di essere un infame
“Pentito è un modo ipocrita e gentile per dire ‘infame’. Io sono un infame e lo so. Quando decisi di collaborare con la giustizia stava per nascere la mia seconda figlia e non volevo crescesse come la prima, costretta a stare dietro il vetro di un parlatorio per incontrare suo padre. Mi avevano promesso una vita nuova, una nuova identità. Invece, niente. Tornassi indietro, non diventerei collaboratore di giustizia. Sì, per qualche anno ho vissuto sotto protezione: un altro nome, un’altra identità e cose di questo genere. Mi hanno spremuto come un limone e poi via nel secchio, come si fa con le cose che non ti servono più. Adesso sono tornato ad essere Antonio Mancini. Quello che lavora nei servizi sociali, che aiuta i disabili”.
“Ho fatto i nomi di tutti, proprio tutti. Sono agli atti, tutto verbalizzato. Sai che mi rispondevano? Che non era possibile e che stavo mentendo perché la verità, così grossa, fa paura. Per questo oggi dico non ammazzate, non rubate…ma non collaborate. Tanto non vi crede nessuno. E nessuno manterrà le promesse fatte”.
In quell’intervista non sembrava agitato. Gli chiesi se aveva paura di morire?
“No, che me ne importa! Vivo giorno per giorno, come se non fosse mai esistita la speranza di un futuro per me”.
E se avesse ucciso mia madre?
Ma come avrei visto quell’uomo, se avesse ucciso mio padre, mia madre, mio fratello, mia sorella, un amico, un marito, un figlio?
Probabilmente non con gli stessi occhi. Ma intervistare un criminale del genere e poi riportare le sue risposte, la sua faccia, le sue espressioni, le sue emozioni con tutto quello che per iscritto non si può trasmettere, non è facile. Di certo, quando si intervista una persona, chiunque essa sia, si cerca di scavare nella sua vita e si cerca di empatizzare con quella persona. Si cerca di capire cosa lo abbia portato a fare ciò che ha fatto, a dire ciò che ha detto. E si prova a restare dissociati da tutto quello che potrebbe essere giudizio e pregiudizio. Ecco, io in quegli occhi non ci vedevo più il sangue. Solo tanto dolore e pentimento. Tanta rassegnazione per non poter cambiare il passato e il dolore causato.
Intervistare e scrivere vuol dire crescere
Interviste come queste mi sono servite tantissimo nella vita e nel lavoro. Raccontare le vite degli altri è per me come rinascere ogni volta con delle consapevolezze diverse e sempre nuove. Anche per capire con occhi puliti e orecchie nuove il mondo che da dentro non sarebbe così chiaro perché offuscato da un eccessivo coinvolgimento.
“Adesso la mia rabbia è più innocente”, mi aveva detto. “È costruttiva e piena di buoni propositi. È una lotta per la vita. Allora premevo il grilletto perché, se non lo facevo io per primo, qualcun altro avrebbe ucciso me”.
“Molte volte prenderei un treno e porterei i miei amici dolenti con me, dove non ci sono le mamme che si vergognano di loro, non sono uomini falsi e ipocriti, dove non ci sono né violenza né morte. Ma quel posto su questa terra non esiste. Dovrei portarli in un’isola che purtroppo non c’è”.
E poi?
Non ho più incontrato Mancini. Ma di tanto in tanto l’ho visto in TV. Molte domande mi vengono ancora in mente ma forse certe cose non avranno mai una risposta.
Nel 2016 Antonio Mancini ha interpretato se stesso nel cine-spettacolo di Milo Vallone ‘Il mondo mezzo. Dalla Banda della Magliana a Mafia Capitale’ e raccontato così i suoi 40 anni di malavita.
A Mancini è ispirato il personaggio interpretato da Giampaolo Morelli in “Vite a perdere”, film tv del 2003 liberamente ispirato ai fatti della Banda della Magliana.
Ha ispirato, nel libro ‘Romanzo criminale’ di Giancarlo De Cataldo , il personaggio di Ricotta, nell’omonimo film che ne è stato tratto, diretto da Michele Placido, il suo personaggio fu interpretato dall’attore Andrea Ricciardi e nella serie televisiva di Stefano Sollima, da Giorgio Caputo.