“Non sono un eroe. Ma nemmeno un infame”. Eppure Marco Poggi, 67 anni, infermiere giudiziario, è un eroe per tanti.
Per qualcuno, cioè per chi preferisce l’omertà e la violenza alla giustizia, è invece ‘l’infame di Bolzaneto’.
E oggi che, a distanza di 16 anni, la Corte europea per i diritti umani da Strasburgo condanna l’Italia perché conferma che quelle che si verificarono proprio all’interno della caserma di Bolzaneto in occasione del G8 di Genova nel 2001 furono veri “atti di tortura”, non possiamo che pensare a lui che fu il primo ad aver avuto il coraggio di denunciare quell’inferno, andando anche contro i suoi ‘colleghi’. Fu il primo a testimoniare raccontando nei dettagli quelle disumane torture effettuate dalla polizia di Stato, dal Gom, Gruppo operativo mobile, e dalla polizia penitenziaria sui manifestanti che erano stati fermati, arrestati e condotti in quella caserma, approntata come centro per l’identificazione. Tutti i manifestanti furono poi scarcerati per insufficienza di accuse.
Secondo quanto ricostruito dal processo, a seguito di testimonianze di decine di vittime, furono oltre 300 le persone legate, umiliate, picchiate e minacciate.
Nel 2013, in Cassazione, il processo per le violenze di Bolzaneto si era concluso con sette condanne e quattro assoluzioni. Per alcuni era scattata la prescrizione. A fare ricorso a Strasburgo 59 persone, tutte erano state condotte a Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001. Undici di questi hanno accettato un accordo con il governo italiano che si è impegnato a versargli 45 mila euro per danni morali, materiali e spese legali. Agli altri la Corte, avendo stabilito che sono stati vittime di tortura, ha riconosciuto risarcimenti per danni morali tra i 10 e gli 85 mila euro.
Da Strasburgo i giudici definiscono così la situazione vissuta da 48 persone a Bolzaneto: “I ricorrenti, trattati come oggetti per mano del potere pubblico, hanno vissuto durante tutta la durata della loro detenzione in un luogo ‘di non diritto’ dove le garanzie più elementari erano state sospese”.
Inoltre, “l’insieme dei fatti emersi dimostra che i membri della polizia presenti, gli agenti semplici, e per estensione, la catena di comando, hanno gravemente contravvenuto al loro dovere deontologico primario di proteggere le persone poste sotto la loro sorveglianza”.
Quelle di Bolzaneto risultavano essere, prima di oggi, e comunque fino a quest’anno (luglio 2017) in cui è stato introdotto nel nostro Paese il reato di tortura, reati minori a cui corrispondevano pene minori: violenza privata, abuso di autorità contro i detenuti o arrestati, violazione dell’ordinamento giudiziario.
“Oltre ai risarcimenti, ci vogliono le giuste pene per i responsabili”, afferma Poggi, con tono deciso e gli occhi ancora pieni rabbia. “Ce l’ho con tutti coloro che potevano fare qualcosa ma non l’hanno fatto. Ce l’ho chi era al Governo e aveva assicurato che ci sarebbero state le giuste punizioni. E invece non ne ha parlato più, come un po’ tutta la politica. Violante, per esempio, perché si oppose alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta? E poi tanti altri, come i capi della penitenziaria che stavano a Bolzaneto, che vedevano i poliziotti dare calci e pugni, ma stavano fermi e ridevano”.
Poggi era di turno in quei giorni. Da infermiere all’interno delle carceri, pensava di svolgere il suo lavoro come di consueto.
“Avrei dovuto solo coadiuvare le visite dei medici ai nuovi giunti, effettuare le anamnesi recenti e remote, e procedere con la solita prassi che serve ad assegnare i detenuti al reparto adeguato. Ma quel carcere provvisorio si trasformò in un vero e proprio lager. Già nel momento in cui vidi un medico in mimetica e con la pistola, qualcosa capì che non quadrava. Ci dicevano che avevano ammazzato un nostro collega, poi ci mostravano una montagna di mascherine che ci dicevano ci sarebbero potute servire. Per non parlare di quelle strane lezioni sulle armi nucleari, e quelle docce anticontaminazione. Ma non avrei mai immaginato quello che sarebbe successo. Non potevo credere ai miei occhi. I poliziotti gridavano, inveivano e aggredivano chiunque si trovassero davanti. Uomini, donne, ragazze e ragazzi. Gridavano a tutti che erano comunisti e che l’avrebbero dovuta pagare. Facevano sempre il nome del duce e cantavano ‘faccetta nera’, l’inno dei fascisti”.
Aveva cercato di fare qualcosa per aiutare chi poteva ma la reazione dei poliziotti fu peggiore del previsto.
“Erano tutti obbligati a guardare in basso, non potevano muoversi né andare in bagno. Venivano picchiati, derisi e insultati. E, alla fine di quell’orrenda esperienza, non parlai per giorni. Nemmeno con la mia famiglia. Ma mia moglie Franca immaginò subito che dietro al mio strano comportamento, alle mie notti insonni, alla mia rabbia, ci fosse qualcosa di davvero grave. Intanto i giorni passavano, la televisione e i giornali non facevano altro che parlare di Carlo Giuliani, dei disordini che avevano causato i black block. E dentro di me cresceva la rabbia per tutte le menzogne che venivano dette dai politici e da tutti i vertici”.
Dopo venti giorni, Poggi decise di denunciare tutto.
“Finalmente mi decisi a fare la cosa più giusta. Ma non sono un eroe, ho fatto solo ciò che avrebbe dovuto fare chiunque. Si sono sempre visti video e foto su ciò che era successo per le strade, e alla scuola Diaz. Ma non c’era niente su Bolzaneto, quindi solo chi sapeva e aveva visto poteva testimoniare”.
Per questo Poggi decise di scrivere un libro in cui raccontare la sua testimonianza. Libro che aveva voluto intitolare provocatoriamente ‘Io, l’infame di Bolzaneto’.
“All’inizio avevo un po’ di paura, è vero. Ma poi, presa la decisione, non sarei più tornato indietro. Ne avevo parlato finalmente con la mia famiglia, che mi aveva dato tutto il sostegno possibile”. Forte di questo, l’infermiere di Bolzaneto non si è più fermato.
Ma il prezzo della verità, “l’infame”, l’ha pagato comunque.
“Mi arrivavano telefonate silenziose, mi rompevano i vetri e le gomme della macchina. Mi facevano recapitare il mio libro e le mie foto scarabocchiate da frasi che mi dicevano che l’avrei pagata. Una volta, un mio collega dal carcere di Bologna in cui lavoravo, mi aveva avvertito di non tornare là perché diceva che mi stavano preparando un ‘comitato d’accoglienza’. Avevo fatto nomi e cognomi, e Giacomo Toccafondi, coordinatore del servizio sanitario allestito nella caserma di Bolzaneto in quei giorni e poi licenziato solo nel 2014, mi aveva anche denunciato per calunnie e diffamazioni. Naturalmente, ero stato assolto. Soprattutto dopo altre testimonianze che avevano seguito la mia. Perché all’inizio mi davano tutti del mitomane, almeno con le altre testimonianze avevano capito che non mentivo. Non ero più tornato nel carcere della Dozza a Bologna, dove lavoravo, ma mi ero dato da fare comunque per lavorare nel privato”. E poi, dalla mia parte c’è sempre stata la mia famiglia. Per me è la cosa più importante. Mia moglie, i miei due figli, i miei nipoti…sono stati loro a darmi la forza di andare avanti in questa mia guerra civile”.
Per Poggi, però, “non tutta la polizia è corrotta, ci mancherebbe. E non tutti i manifestanti sono come quella minoranza criminale che aveva distrutto la città. Dico solo che, se ciò che era successo a Bolzaneto non era premeditato, era stato poi tollerato. Ed è inammissibile. Ma come faceva un Ministro della Giustizia, che allora era Castelli, a cercare addirittura di giustificare l’accaduto? In quel caso, non ci sono giustificazioni che tengano! Giustizia, e ripeto giustizia, quella vera, quella che non ha schieramenti politici, deve essere fatta. Non vendetta, quella non servirebbe a niente”.
A tratti i suoi occhi si infuocano di rabbia ma molto più spesso si inumidiscono di lacrime che forse non riusciranno mai a venir fuori come vorrebbero. Da quel turno Marco Poggi è cambiato.
“La sofferenza che vivo dentro di me non ha parole, e non penso le troverà mai. Ma è niente rispetto a ciò che quei ragazzi porteranno dentro per sempre”.
Donatella Briganti (ghostwriter e giornalista)